La vendemmia ha origini antichissime ed il ritrovamento di residui organici in giare ritrovate in Sicilia ha indotto a ritenere la produzione di vino in questa regione tra le più antiche al mondo e risalente almeno a seimila anni fa.
Gli antichi romani dedicavano alla vendemmia una festività, i “Vinalia rustica”, celebrati il 19 Agosto ed ecco perché ancora oggi nell’immaginario collettivo la parola “vendemmia” rimanda all’idea di festa.
In un passato non troppo lontano, dopo aver stabilito la data di inizio della vendemmia in genere non prima del l’8 settembre, quando le mogli degli agricoltori del versante sud della città- territorio di Marsala, nella giornata dedicata a Maria Santissima Bambina, portavano in chiesa ceste colme di uva per la benedizione affinché l’annata fosse buona.
I preparativi per la vendemmia coinvolgevano tutti, senza distinzione di età e sesso.
I ragazzi aiutavano gli adulti a pulire i contenitori per la raccolta dell’uva “cartedde”, a raggruppare gli utensili, le forbici, gli imbuti, i secchi.
All’alba, uomini e donne con le “cartedde” e ragazzi con i “panareddi” per raccogliere l’uva si recavano nelle campagne.
Nel momento in cui i cesti erano pieni, venivano disposti ai margini dei filari dove il “carricaturi” li svuotava nei “tineddi” (recipienti di legno ovali corrispondenti a metà botte) che erano collocati al centro del “carretto” (carro tipico siciliano).
Quando il “tineddo” era pieno, si andava a scaricare l’uva sul “paramento” (palmento) collegato con gli “scarricatura” (aperture sul palmento per fare scendere l’uva dai carretti).
Poi entravano in gioco i “pigiatura” uomini scalzi con grossi stivali che, tenendosi a delle corde che pendevano dal soffitto, pestavano l’uva, dandosi il ritmo.
Ad un certo punto dal “pozzetto” collegato al palmento iniziava a scorrere il “mosto fiore” di prima spremitura ed era gioia per tutti.
Nel frattempo i resti dell’uva pestata venivano messi dentro le “coffe” (contenitori di fibre vegetali intrecciate) che venivano pressate, prima nelle “viti” (presse)messe una sopra l’altra (circa dieci coffe) e, poi, dal 900 nel “torchiu” (torchio) fino a quando rimanevano soltanto i residui asciutti: il “vinazzu” che si conservava all’aria aperta e si dava gradualmente agli animali domestici.
Nelle giornate di vendemmia i pasti venivano consumati tra i filari o nell’atrio della casa padronale chiamata “bagghiu”.
Si accompagnava il pane con le sarde salate o con le olive e i pomodori.
Il pasto caldo si consumava la sera a casa: le donne tornavano dalla vendemmia prima o qualche volta rimanevano a turno a casa per preparare la cena e gli uomini, dopo essersi lavati nei “tinozzi” con l’acqua del pozzo, si riunivano per consumare la pasta asciutta di casa “lasagni o tagghiarini, gnocculi, busiati o maccarruna”.
La pasta, condita con la salsa di pomodoro, cotta con cipolla e aglio rosolato nell’olio e basilico, veniva versata in un contenitore di legno chiamato “maidda” che si posava al centro della tavola ed ognuno attingeva a suo piacimento.
Il secondo piatto era a base di carne, generalmente polli allevati in casa o polpette di carne tritata, qualche volta sarde arrostite alla brace.
Dopo cena, nonostante la stanchezza, tutti si intrattenevano ancora un po’ sotto un grande albero di carrubo con scherzi, giochi a pegni e serenate, qualcuno suonava il “fiscalettu” (zufolo fatto con la canna).
Le famiglie: Alagna, Angileri e Caruso delle CANTINE VINCI cominciavano ad organizzare la vendemmia già a fine agosto con la messa a punto di palmenti, tini, pompe, prima carretti e poi camion, ceste ed infine forbici.
Le donne rimanevano a casa a spennare polli e preparare la salsa di pomodoro che sarebbe servita per preparare la cena ai “vendemmiatori” provenienti dalle zone più interne della Sicilia che avrebbero gradito il pasto innaffiato da un buon vino di alta gradazione.
Ogni tanto, affaccendate nelle loro conserve di pomodoro, invocavano la volontà di Dio, lo pregavano affinché non facesse piovere e non rendesse la vendemmia difficile e lunga.
C’era un clima di festa ed anche i bambini non perdevano occasione di giocare con i graspi caricandoli sui loro camioncini imitando i grandi.
Il mosto, poi, passava dal palmento alle botti dove fermentava per un lungo periodo aspettando San Martino quando “Ogni mosto diventava vino” e si arrivava al momento fatidico dell’assaggio che coinvolgeva tutti.
Il capofamiglia spillava il vino nuovo dalla botte al bicchiere, ne osservava il colore, ne sentiva il profumo e alla fine lo assaggiava.
Poi anche altri componenti della famiglia si esprimevano sul colore, l’odore ed il gusto dimostrando che un vino è il connubio di tutte le generazioni che coltivano un vigneto.